Farsi santi con la spiritualità di San Benedetto
Molti credono che la spiritualità di San Benedetto, più facilmente riconoscibile con la parola Benedettina, sia qualcosa di difficile, di irraggiungibile, che solo un monaco devoto può perseguire. Nulla di più sbagliato, la spiritualità di San Benedetto, è una spiritualità semplice e allo stesso modo affascinante, carismatica. In questo articolo la mostriamo in dodici passi, spiegati da Augustine Wetta, monaco dell’Abbazia di Saint Louis, in Missouri, basandosi su quanto insegna la Regola di San Benedetto:
n gioventù, Augustine Wetta aveva carezzato il sogno di costruirsi una carriera nel mondo della stand-up comedy. Il Signore dispose diversamente, facendo maturare in lui una vocazione per la vita religiosa in seno alla famiglia benedettina; ma (naturalmente!) questo non impedì ad Augustine di mettere a frutto la sua vena comica. Il suo Humily Rules, un libretto pensato per giovani cattolici che vogliono progredire nel loro cammino verso la santità, è uno scoppiettante mix di ironia e di spiritualità benedettina, che (raro pregio veramente!) riesce a edificare e a divertire al tempo stesso. Ispirandosi a ciò che lui personalmente ha appreso dalla lettura e dall’applicazione della Regola di san Benedetto, il monaco fornisce ai suoi giovani lettori un percorso a dodici tappe per diventare uomini migliori. Curiosi di averne una sintesi?
1. IL TIMOR DI DIO
Non esattamente il modo migliore per rendere accattivante il proprio progetto di vita; eppure, a giudizio di Augustine, i cattolici di oggi tendono a dimenticare troppo facilmente questo primo punto che è davvero fondamentale per poter intraprendere un serio cammino spirituale. Per citare le sue parole «ultimamente, mi sembra che ci sia la tendenza a pensare a Dio non tanto come a un Padre Celeste, quanto più come a un celeste nonnetto: un vecchietto buono ma anche un pò senile, che non si interessa più di tanto a quello che fanno i giovani, a patto che sia qualcosa che rischia di far loro seriamente male». Beh, le cose non stanno esattamente così, e razionalmente lo sappiamo tutti. «Quindi, sì: l’ideale sarebbe amare Dio.
2. ABNEGAZIONE DI SÉ
Fratello Augustine descrive la bella abitudine che vige ancor oggi in molti monasteri benedettini: dopo cena, la comunità si ritrova nella sala comune per una mezz’oretta di chiacchiere in allegria. Quando il nostro amico entrò in monastero, la sua allegra presenza rivoluzionò completamente quelle serate: per l’appunto, Augustine aveva un passato da cabarettista professionista, dunque era senza dubbio in grado di calamitare su di sé l’attenzione strappando risate a tutti. Ebbene: una sera, uno dei monaci più anziani lo prese da parte e, con molto garbo, gli disse alcune parole che l’autore ricorda ancora:
«fratello Augustine, la tua personalità è scoppiettante come un fuoco d’artificio. Ma ogni tanto anche i piccoli petardi meritano qualche chance di ottenere l’attenzione». Commenta l’autore: «ad oggi, è il modo più gentile che qualcuno abbia mai usato per dirmi di chiudere la bocca»; e aggiunge anche che, col senno di poi, imparare gradualmente a guardare alla vita con questo approccio s’è rivelato essere molto rilassante. Non occorre fare sfoggio delle proprie abilità per dimostrare qualcosa a qualcuno: si vale per il semplice fatto d’essere una persona. Non è un pensiero molto riposante?
3. OBBEDIENZA
Il capitolo 41 della Regola benedettina regola con saggezza l’orario dei pasti, ordinando che l’ora di pranzo venga anticipata se i monaci, durante i mesi estivi, hanno dovuto lavorare a lungo sotto il sole; e questo, «per non dare loro buone ragioni per brontolare».
Certo, qui si vede l’avvedutezza di un padre che sa di poter pretendere dai figli sforzi eccessivi e interviene con sapienza per non rendere loro insopportabile l’obbedienza. Ma Augustine si domanda provocatoriamente: quand’anche san Benedetto non avesse avuto questa cura, brontolare sarebbe stato un comportamento santo? Secondo lui, no: «il fatto di avere una buona ragione per brontolare contro un superiore non rende meno piacevole la scelta di farlo». L’obbedienza è bidirezionale: va saputa chiedere con le dovute attenzioni (per non trasformarsi da superiori a schiavisti), ma va saputa accettare con una certa docilità (per trasformare un voto religioso in una occasione di polemica costante).
4. PERSEVERANZA
San Benedetto non riusciva proprio a sopportarli, i piagnistei. «Le lamentele erano la cosa che più lo infastidiva; nella sua Regola, le cita per otto volte»; e tenuto conto che il santo si ripete molto raramente, questo dà il conto di quanto l’argomento dovesse stargli a cuore. Ed è comprensibile, visto che il brontolio e le polemiche servono ben di rado a risolvere i problemi (scopo per il quale la diplomazia è sicuramente scelta più efficace), e in compenso finiscono quasi sempre col disseminare il dubbio e il malcontento anche in chi, fino a quel momento, era tranquillo. Nella vita religiosa (così come in quella matrimoniale, scolastica o lavorativa), perseverare nello scopo che si è prefissi senza cercare ogni occasione per polemizzare contro il prossimo è certamente un buon modo per santificarsi (e contribuire a un clima disteso).
5. PENTIMENTO
Il capitolo 71 della Regola impartisce ai monaci un buffo ordine: «se un fratello nota che, per qualche motivo, uno dei suoi superiori è in collera con lui, senza perdere tempo gli si inginocchi dinnanzi e gli chieda la sua benedizione».
Con acutezza, fratello Augustine commentate: «notate che, tecnicamente, il monaco in ginocchio non sta chiedendo perdono, o almeno non necessariamente». Il gesto prescritto da san Benedetto con equivale necessariamente a uno “scusa, ho sbagliato”, quanto più a un “mi spiace vederti arrabbiato con me: facciamo pace?”. È qualcosa che può essere fatto anche da chi non ha ancora sbollito la rabbia, e persino da chi è intimamente convinto di essere dalla parte del giusto ma non ha intenzione di trascinare oltre il litigio. «Può sembrare un atteggiamento insincero, ma riflettiamoci sopra: se le persone chiedessero scusa solo nelle occasioni in cui sono consapevoli di essere in torto, le scuse sarebbero ben rare». In compenso, questo espediente permette senza dubbio di sedare gli animi!
6. SERENITÀ
Fratello Augustine confessa d’aver compreso per la prima volta cosa fosse la vera serenità durante un lungo blackout della rete elettrica che tolse la corrente al suo monastero per tre ore e mezza. Quando tornò la luce, i monaci furono sgomenti nello scoprire che un loro confratello era rimasto bloccato in ascensore per tutto quel tempo, senza che nessuno notasse la sua assenza e andasse a soccorrerlo (e senza che, del resto, lui si desse pena di cercare aiuto in qualche modo). Quando Augustine, sconvolto, gli chiese come mai non avesse fatto qualcosa per attirare l’attenzione, l’anziano monaco lo guardò quasi stupito: e perché mai avrebbe dovuto distrarre gli altri da incombenze più urgenti? Aveva avuto la chance di godersi tre ore e mezza di relax completo, senza nulla da fare, potendosi dedicare senza distrazioni alla preghiera: per lui era stata una vera pacchia, altroché!
«Ricordo distintamente di aver pensato, all’epoca, che doveva esserci davvero una qualche forma di potere, in azione in questo monaco», scrive l’autore: «una capacità di trovare motivi per gioire persino nelle condizioni più sfidanti. E ricordo anche di aver pensato che, se fossi stato in grado di imparare da lui, allora avrei potuto essere un uomo felice».
7. UMILTÀ
Che, attenzione, non vuol dire deprecazione di sé. Auguste fa notare che, spesso, quando riceviamo complimenti, noi tendiamo a schernirci pensando di fare cosa buona: “il 30 e lode all’esame? No, ma ho solo avuto fortuna”; “questo? Mannò, niente di che, è solo un lavoretto che ho buttato lì tanto per fare”. Ecco: «essere umili non vuol dire mancare di autostima: vuol dire conoscere se stessi e i propri limiti. Quindi, se oggettivamente sei bravo in qualcosa, negare i tuoi talenti non è un atto di umiltà: tutt’al più, è un blando insulto a Dio, che di quei talenti ti ha fatto dono». Peccato sarebbe ostentarli con superbia; ma anche rifiutarsi di riconoscerli e render grazie.
8. PRUDENZA
Certo: la Storia in segna che possono (molto raramente) capitare casi estremi e dolorosi nei quali può essere moralmente doveroso disubbidire a una legge ingiusta. «Ma prima di iniziare a infrangere le regole», raccomanda l’autore, «cerca innanzi tutto di capire le ragioni per cui la regola è stata imposta»; e scoprirai, nella stragrande maggioranza dei casi, che effettivamente è lì per una ragione. Quando ci viene la tentazione di criticare il legislatore, il papa, i nostri genitori, il maestro di scuola, sarebbe bene partire dal pregiudizio positivo per cui, con buona probabilità, «le autorità sanno perfettamente ciò che stanno facendo, e probabilmente sono anche in possesso di informazioni che noi ignoriamo».
E, concedendosi una frecciatina, commenta anche che è davvero stupefacente vedere la fiducia totalizzante con cui la gente è pronta a dare peso all’autorevolezza di dentisti, idraulici, carrozzieri e avvocati, affidandosi ciecamente al loro giudizio e autorizzandoli a fare ciò che vogliono del loro corpo, dei loro soldi e della loro autovettura, ma poi adottano comportamenti da rivoltoso nei confronti del clero, pretendendo di saperne più di loro. Chi si comporterebbe allo stesso modo con un team di neurochirurghi?
9. SILENZIO
Un giorno, una monaca benedettina condivise con Augustine una perla di saggezza: nel momento in cui si deve ribattere a una accusa, è bene difendersi includendo nella propria risposta un sunto delle accuse appena ricevute: “tu ritieni che io abbia sbagliato in X, Y, Z. Ebbene, io penso che…”.
Perché questo stratagemma retorico? Perché questo stratagemma retorico? Perché garantisce alla controparte che le sue parole siano state effettivamente ascoltate e ponderate: del resto, quante volte nei litigi vengono pronunciate frasi tipo “ma mi ascolti quando parlo?”, oppure “ma te ne importa qualcosa di come mi sento io?”.
Un rispettoso silenzio che accoglie le parole d’altri prima di ribattere è la prima chiave per la reciproca comprensione.
10. DIGNITÀ
Nel capitolo 4 della Regola, san Benedetto invita i monaci a essere molto cauti con gli scherzi e le battute di spirito, per la valida ragione che è difficile immaginare il modo in cui saranno recepite. Augustine condivide coi suoi lettori un aneddoto risalente ai suoi anni universitari, quando tra lui e i suoi sette coinquilini era nata la consuetudine goliardica di prendersi in giro lasciando sul frigorifero dei post-it con comunicazioni catastrofiche e palesemente inventate: “Rick, ha chiamato l’FBI, pensa che gli alieni abbiano rapito la tua famiglia”.
Un giorno, uno dei coinquilini ebbe la grandiosa idea scrivendo su un post-it: “Ack, tua mamma è morta”, senza minimamente sapere che, qualche giorno prima, la mamma di Ack era corsa al pronto soccorso, allarmata per certi dolori al petto che sentiva da qualche tempo. Non c’è nemmeno bisogno di dire che Ack entrò nel panico completo quando lesse quel messaggio, con gran vergogna di tutti gli altri.
«C’è una linea sottile che può facilmente essere superata quando fai uno scherzo, e il problema è che spesso molto difficile stabilire dove esattamente si trovi quella linea», scrive Augustine. Perdipiù, «nessuno di noi può sapere per certo cosa alberga davvero nel cuore di un uomo; e il fatto che il tuo amico stia ridendo dopo che gli hai fatto una battuta non vuol necessariamente dire che le tue parole non l’abbiano ferito dentro. E poi, ci sono scherzi che semplicemente sono al di sotto della tua dignità».
11. RISERVATEZZA
Al capitolo 69 della Regola, san Benedetto usa parole durissime nel condannare quei monaci che, nel corso di una lite, prendono le parti dell’uno o dell’altro: «questo è spesso motivo di grave scandalo». Si sarebbe facilmente tentati di considerarla una norma eccessivamente rigida, che impedisce addirittura di difendere un amico nel momento del bisogno; ma è chiaro che la regola è motivata dalla necessità di non ritrovarsi a dover gestire un monastero nel quale vigono delle faide interne tra bande opposte di monaci che si guardano in cagnesco. Prendere le difese di una persona (e non di una idea), nel corso di una lite (e non di una discussione) significa unicamente aggiungere fuoco alla benzina, complicando ulteriormente una situazione già tesa: ««prima di ogni cosa», fa notare Augustin, «la riservatezza implica la capacità di comprendere quand’è il momento di tenere la bocca chiusa».
12. REVERENZA
Chi sarebbe così scemo da proporsi per un impiego per poi entrare sistematicamente in ritardo, lavorare il meno possibile, mancare di rispetto ai superiori e consegnare all’ultimo momento progetti raffazzonati? Oh cielo: forse, qualche idiota potrebbe anche provarci, ma è probabile che il datore di lavoro avrebbe qualcosa da ridire sulla sua condotta; e se queste considerazioni valgono per il laicato, perché non dovrebbero valere anche per chi abbraccia una vita religiosa?
Per definizione, il lavoro di un monaco è quello di pregare. E dunque, la Regola di san Benedetto si raccomanda che essi lo facciano nel miglior modo possibile, dedicandosi alla preghiera con lo stesso impegno che un laico profonde sul luogo di lavoro: arrivando puntuale ogni mattina, dando il meglio di sé, restando aperto al dialogo col suo superiore. «Quando suona la campanella che richiama alla preghiera, il monaco interrompe immediatamente qualsiasi cosa stia facendo», spiega Augustine, «perché non esiste alcuna occupazione più importante».
La semplicità della spiritualità di San Benedetto
Certo: non tutti siamo monaci, e sarebbe irragionevole pretendere di adottare al 100% uno stile di vita che, per definizione, è adatto a chi ha una vocazione diversa dalla nostra, ma questi dodici passi, almeno 10 sono così semplici che fanno parte proprio della vita di un vero cristiano, e che dovrebbe mettere sempre in atto. E tuttavia, anche in questo l’esempio monastico potrebbe esserci d’aiuto: se non altro, per farci guardare con occhi nuovi la nostra partecipazione alla Messa.
Scopri di più da Annalisa Colzi
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