Perchè il cervo è simbolo di Cristo glorioso
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Tutti abbiamo sempre creduto che come l’animale associato simbolicamente a Gesù sia l’agnello. Invece è il cervo. Strano animale da simboleggiare Cristo Gesù?
Ad esempio San Luca Evangelista è rappresentato dal toro, mentre Giovanni dall’aquila perché questo bellissimo animale ha la vista che vede lontano chilometri; così Giovanni che vide lontano: “l’apocalisse”. Invece il simbolo di San Luca è un bue alato e il motivo di questa scelta è legato al fatto che il primo personaggio ad essere presentato nel suo Vangelo è Zaccaria, il padre di Giovanni Battista, sacerdote del tempio e responsabile del sacrificio dei buoi.
Cosa centra il cervo con Gesù?
Ora ritornando al simbolo animale associato a Gesù: “Cosa centra un cervo?” Tutti noi conosciamo l’Agnus Dei e il pesce paleocristiano che ornava le catacombe: ma, nel corso dei secoli, molti altri animali ebbero l’onore di essere associati simbolicamente a Cristo, nell’arte e nella predicazione. E, tra i molti, vi fu anche il cervo: un animale che, del resto, era molto caro alle popolazioni barbariche, che lo consideravano “re della foresta”. Quando la cultura dei popoli del Nord si fuse con quella mediterranea e cristiana, il possente re dei boschi acquisì nuove simbologie che, nell’arco di pochi secoli, lo resero l’animale cristologico per eccellenza.
Un animale eroico, in lotta con il serpente
L’occasione era stata offerta su un piatto d’argento. Il cervo, innanzi tutto, è un animale citato frequentemente nella Bibbia; amatissimo, per esempio, era quel versetto del Salmo 42 in cui si legge «come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio». Quella dolce immagine, così poeticamente suggestiva, fu ripresa da numerosi autori e finì con l’influenzare le arti iconografiche: fin dai primi secoli, immagini di cervi furono incise nei fonti battesimali proprio in omaggio a quel Salmo.
Se il cervo era un animale frequentemente citato nella Bibbia, non erano certo i testi sacri gli unici ad averne dato un ritratto a tinte fulgide. Nel Medioevo, era nota a tutti i letterati la proverbiale inimicizia tra cervo e serpente, citata da numerosi autori antichi tra cui Plinio, Lucrezio, Marziale (per citar solo i più famosi).
Se già Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, aveva parlato di come il cervo stanasse i serpenti dalla terra e poi li incenerisse con un solo soffio del suo fiato, che a suo dire era venefico per i rettili, questa immagine fu reinterpretata in età cristiana con l’aggiunta di qualche dettaglio di ispirazione biblica. Nel Fisiologo, un bestiario redatto ad Alessandria d’Egitto nel III secolo, si legge ad esempio che i serpenti, quando si rendono conto di essere inseguiti dal cervo, sono soliti cercare rifugio infilandosi sotto i sassi e tra le crepe della terra.
Per stanarli, il cervo beve un po’ di acqua che poi sputa tra quelle piccole crepe: per non affogare, le serpi sono costrette a riemergere dalle viscere della terra… ma a quel punto vengono uccise dal loro giustiziere, che senza pietà li schiaccia sotto il suo calcagno.
Evidente l’ispirazione cristiana che sta dietro questa descrizione: ben presto, il “re delle foreste” cominciò ad essere rappresentato come una allegoria del Cristo vincitore. Una suggestione che, tra l’altro, piacque moltissimo alle popolazioni che vivevano nell’Europa centro-settentrionale, dove era ancora molto vivo il ricordo del cervo visto come animale sacro, secondo il credo di molte culture precristiane.
Il cervo che si fa servo, andando incontro alla morte
Col passar dei secoli, nuove simbologie andarono ad aggiungersi a quelle già citate sui bestiari. Per esempio, il fatto che il cervo perda i suoi palchi ogni inverno per poi vederli ricrescere a primavera fu reinterpretato da molti religiosi come simbolo della morte e resurrezione di Gesù.
Come se non bastasse, il cervo era all’epoca una preda particolarmente ambita dai cacciatori, in virtù del fatto che moltissimi oggetti potevano essere ricavati dal suo corpo, dopo che questo era stato macellato. Questa circostanza alimentò l’impressione che il sacrificio dell’animale fosse particolarmente fruttifero; il che, ovviamente, fu interpretato in analogia con la morte salvifica di Cristo.
Nel pieno Medioevo, cominciarono addirittura a farsi frequenti i giochi di parole per cui il cervus, possente re della foresta, accetta di diventare servus del suo carnefice andando volontariamente incontro alla morte, in un topos che gli appassionati di musica potrebbero forse ricordare d’aver sentito sviluppare qualche tempo fa da Angelo Branduardi, in una delle sue più celebri canzoni.
E, del resto, chi non ricorda l’episodio di sant’Uberto, che nel corso d’una battuta di caccia organizzata per il Venerdì Santo (in una totale mancanza di rispetto alla sacralità di quel giorno, che meglio andrebbe dedicato al digiuno e alla preghiera!) s’imbatte in un cervo che sembrerebbe essere la preda perfetta, e che anzi gli si avvicina lentamente ed esponendo il fianco, quasi fosse pronto a essere trafitto e ucciso?
Ma quel cervo non è un animale come tutti gli altri: sant’Uberto, sgomento, lo scoprirà di lì a poco, quando il re della foresta gli parlerà con voce umana, ordinandogli con severità di ravvedersi e di guardare con maggiore serietà ai suoi doveri cristiani, se vuole avere salva la sua anima. Sconvolto da quell’incontro, Uberto abbraccerà una rigorosa vita di penitenza e di preghiera: e oggi, infatti, noi lo ricordiamo come santo.
Certo, erano altri tempi: la caccia al cervo era comunemente praticata e la gente aveva molta più dimestichezza con le abitudini e le caratteristiche della fauna boschiva. In quel tempo, le omelie che paragonavano il cervo morente a Gesù che agonizza in croce dovevano essere molto più incisive ed efficaci rispetto a quanto siano ai nostri giorni, proprio perché facevano leva su immagini che, all’epoca, erano parte della vita quotidiana d’un buon numero di persone.
Oggigiorno, noi uomini del terzo millennio dobbiamo probabilmente faticare un po’ di più per cogliere tutte quelle analogie che erano evidenti ai nostri progenitori. Ma potrebbe valer la pena di fare questo sforzo: in fin dei conti, non è una simbologia splendida?
Scopri di più da Annalisa Colzi
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