“Per noi, quello che veniva tecnicamente definito embrione alla sesta settimana, era il nostro bambino”
Parte Terza
In ogni progetto, c’è un aspetto importante a cui dare sempre un significato: il dolore.
Anche nel caso di un aborto spontaneo c’è sempre un dolore.
Può essere avvertito o meno, ma c’è. Anche quando sembra che ci sia indifferenza, in realtà ci troviamo davanti ad una mancata consapevolezza di quanto vissuto. Questa consapevolezza è molto debole soprattutto quando nella persona è presente una mentalità contraccettiva che illude di isolare e controllare l’aspetto procreativo dell’atto sessuale: come e quando voglio io, se lo vorrò, avrò un figlio. Così agendo, l’uomo annulla la verità sulla propria sessualità e recide da se stesso una parte fondante della propria identità. La parte procreativa, quella fisico corporea e quella culturale vengono messi in compartimenti stagni: spetterà poi a me decidere quando passare da una all’altra, con la complicità della scienza e tecnica (metodi anticoncezionali, fecondazione artificiale) e delle impalcature ideologiche della liquidità sessuale.
In realtà, è nella totalità delle proprie funzioni che la componente sessuale conferisce senso e compimento alla nostra mascolinità e femminilità. Per fare un esempio: è come se decidessi di non usare più il mio braccio destro. Gli riconosco la funzione estetica (è attaccato al mio braccio), ma non quella articolare (non lo voglio più muovere). Il mio corpo continua a vivere, sì, ma in sofferenza.
Così anche noi continuiamo a vivere, ma privati di un aspetto fondante della nostra identità. Oggi, uomini e donne sono particolarmente sofferenti perché divisi nella loro integrità, cosicché nelle relazioni arrivano a portare solo una parte di sé e di solito quella più sanguinante. Non esiste il dono totale di sé al prossimo, bensì uno scambio solo di ciò che si vorrà o si potrà dare – se uno è frammentato in se stesso, cosa potrà mai offrire al prossimo se non il proprio vuoto e una fame di pienezza? (Tu devi darmi…)
Tutti portiamo delle sofferenze e debolezze. Abbiamo dei limiti che ci ricordano che siamo fragili. La differenza sta nella dialettica: nel dono, ci si custodisce l’un l’altro attraverso le proprie fragilità. Esse non sono motivo di accusa (non sei come pensavo..), bensì di crescita. Anche questa è fecondità.
Nello scambio, tratteniamo gelosamente le nostre fragilità perché abbiamo paura. Non ci fidiamo del prossimo e mettiamo le maschere. E mentre recitiamo una parte, copriamo le nostre ricchezze, quelle debolezze che ci rendono unici. Vogliamo nascondere noi stessi, ma poi ci scambiamo incessanti richieste che possano alleviare la nostra inquietudine. Il prossimo non è più custode della mia preziosità, ma un mero distributore di emozioni (devi darmi, devi essere..).
La logica del dono porterà all’integrità, quella dello scambio ad un aumento delle proprie ferite. Il dono condurrà a relazioni nella verità di se stessi (ci si mette in gioco con tutto), lo scambio produrrà relazioni falsate e parziali (mostro e offro ciò che voglio o posso).
Una mentalità contraccettiva che non riconosce la sessualità nei suoi molteplici aspetti, in particolare quello procreativa, arriva a escludere che un embrione possa avere vita. Da qui a credere che “tanto era solo materiale organico” il passo è breve. E se “tanto era appena un gruppo di cellule” con molta facilità si arriva a dire “tanto ne faremo un altro”. Negando l’esistenza del bambino in quelle cellule, viene negata la sua l’unicità. Dall’essere persona si passa all’essere oggetto. Ma questo modo di pensare non toglie il dolore, bensì lo sotterra, ci si passa sopra con tutte le conseguenze già note: uomini e donne sempre più feriti nella propria paternità e maternità e nella propria identità maschile e femminile.
C’è chi invece questo dolore lo percepisce e lo vive intensamente. Vorrebbe elaborare questa sofferenza, ma essa viene soffocata. Essere immersi in una società che nega la vita fin dal concepimento, banalizza il dolore di chi vive un aborto. “Non è necessario soffrire per la perdita di un grumo di cellule”, così la persona lentamente si convince che quel dolore non merita attenzione, lo sotterra e non ci pensa più. Le ferite saranno coperte, ma sanguineranno lo stesso e manifesteranno le proprie conseguenze anche a distanza di anni. Come Maria, una signora di 80 anni che, conosciuta in una vacanza, ricordava il vivo dolore di non aver dato alla luce suo figlio, 50 anni prima.. Rimasi colpita da quelle lacrime che silenziose scendevano tra i suoi ricordi, dopo tutto quel tempo. Forse per Maria il tempo si era fermato a quel dolore rimasto soffocato.
Francesca e Davide
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