Le tradizioni della Chiesa sono vive e forti
Oggigiorno, quando le credenze e le pratiche tradizionali compiono un inaspettato ritorno nel Cattolicesimo, si vedono gli scettici scuotere le loro teste e parlare di come le tradizioni della Chiesa sia morta e sepolta, o di come sia bellissima ma inaccessibile, o di come si rischiano stranezze nel tentativo di “riconnettersi” con qualcosa che non è più spontaneamente visto e sentito come “nostro”.
Per me, tuttavia, tale scetticismo non ha senso, in quanto la mia esperienza nella vita, è stata quella che le tradizioni della Chiesa è viva e sempre più forte.
Ma si deve dare sé stessi; è viva e in forze in coloro nella quale vive e prospera.
Lasciatemi spiegare.
Sono un cantante e compositore di musica sacra.
La musica sacra è sempre stata un regno di grande tradizionalismo, nella quale ogni generazione, pur arricchendo l’archivio abituale, continua a preservare e cantare la musica ereditata.
Ad esempio, quando la polifonia del Rinascimento è nata, il canto Gregoriano non svanì; ha continuato ad essere usato assieme al nuovo stile.
Quando il Barocco ha soppiantato il Rinascimento, la musica secolare è cambiata considerevolmente, ma nella liturgia della Chiesa si può ancora sentire spesso le melodie di Palestrina, Lasso o Victoria.
Quando Mozart e Haydn scrissero le loro masse orchestrali, i Proprium erano ancora cantati nello stesso antichissimo canto gregoriano.
Ad oggi, ovunque la liturgia sia celebrata a dovere, sentiremo ancora quegli antichi canti, forse integrati da mottetti o masse tratte da uno qualsiasi dei periodi creativi attraverso la quale la Fede è passata.
Essere un musicista e compositore di musica sacra, è sperimentare la perenne freschezza di questa intera eredità.
Non si presenta come stile antico, come se si cercasse di rivivere un vecchio stile di abbigliamento; si presenta come antico, sacro, appropriato, fatto su misura per il suo scopo.
Quando scrivo la mia musica, seguo i miei predecessori, che io lo faccia consapevolmente o solo seguendo la mia fantasia: la mia omofonia e polifonia avranno canto melodico e cadenze stabilite.
Ma non suona mai come un tentativo di un’autentica ricostruzione storica di un compositore del passato, come se pretendessi di essere Palestrina.
A prescindere dal fatto che non ho il talento di portare a termine una perfetta, credibile, imitazione di Palestrina, è evidente che la musica dei moderni compositori, per quanto “conservativi” possano essere, suona ancora come nuova musica moderna, ma ancora radicata nella tradizione alla quale sono felici di appartenere, in armonia con tutto ciò che l’ha preceduta.
In altre parole, ho un’esperienza di “essere me”, di produrre il mio lavoro, mentre allo stesso tempo sono in continuità con le tradizioni della Chiesa Cattolica.
Non c’è antagonismo in questa relazione.
Il passato non è “solamente” passato, in quanto vive nella mia mente e nel mio cuore come una realtà presente che porto nel futuro.
Palestrina è morto, ma la musica di Palestrina, ogni volta che viene eseguita, è altrettanto viva come quando fu suonata la prima volta nelle chiese di Roma.
Scritta su carta, la musica acquisisce un’esistenza perfetta e, quando è suonata, raggiunge nuovamente piena esistenza, entrando nelle orecchie della gente di oggi come un bellissimo suono ben ordinato.
Ho avuto un’esperienza simile guardando i miei figli immergersi nei repertori dei rispettivi strumenti (arpa, liuto, pianoforte, organo).
Non importa da quale periodo arrivi la musica, loro gli si approcciano come se fosse fresca di stampa, appena pubblicata, e la fanno rivivere nuovamente, dando gioia a chi li ascolta.
Per me, l’esperienza fondamentale e che cambia la vita in questo senso, è stato scoprire e apprendere, avvicinare me stesso alla liturgia tradizionale della Chiesa Cattolica Romana, divenendo un allievo delle sue ricche preghiere e bellissimi canti, dei suoi significativi gesti e dei suoi eccezionali simboli.
Mi ci son voluti decenni per giungere al punto nella quale sono completamente “uno” con questa liturgia, che mi parla intimamente, oltre ogni studio; e così lontana dall’aver perso il suo fascino attraverso la famigliarità, mi colpisce come qualcosa della quale non potrei vivere senza, non potrei stare senza.
Questa tradizione, che per alcuni estranei è un pezzo di museo ricoperto da ragnatele, è radiosamente viva nella mia anima e nell’anima di molte persone che conosco, fra cui mia moglie e i miei figli.
E’ divenuta per noi non un oggetto da contemplare ma un mezzo attraverso cui viviamo, osserviamo, amiamo.
L’elemento decisivo in tutto quel che ho raccontato è questo: ci si deve immergere nelle tradizioni della Chiesa.
Non può essere l’immersione della sola punta del piede nel fiume.
Non può essere una fredda considerazione intellettuale da lontano, scrutando attraverso i molti veli di attrezzature e commenti.
Deve essere una “completa esperienza di immersione”: si deve lasciar andare sé stessi, dimenticare sé stessi, abbandonare sé stessi alla realtà a portata di mano, e lasciare che prenda forma la vista e l’udito, spianare le aspettative di ciò che c’è da vedere e sentire.
Ed è esattamente a questo punto che l’autocoscienza moderna, che è un altro modo di dire la tentazione di autonomia, obbietta: “faresti meglio a fare attenzione riguardo al lasciarti andare. Potresti ritrovarti una persona diversa. Potresti essere inghiottito e divenire un fanatico. E’ meglio tenere il controllo di sé e prendere le distanze, mantenere l’obbiettività di un osservatore neutrale”.
In altre parole, è il bisbiglio del Serpente: “non essere sciocco. Quelli che immergono sé stessi nel fiume, annegano”.
Queste obbiezioni, che tutti abbiamo affrontato in un modo o nell’altro, dimostrano che c’è una certa scelta coinvolta nella mancata connessione con la Tradizione Cattolica, almeno per coloro che sono abbastanza fortunati da sfiorarla: si ha paura di aprirsi al mistero trascendente che simboleggia e comunica.
Nella sua omelia inaugurale del 24 aprile 2005, Papa Benedetto XVI, ha energicamente rappresentato questa drammatica alternativa fra paura e resa.
Come possiamo sentire dalle sue parole, ci fa pensare non solo a Cristo o al Cristianesimo in senso generico, ma alla ricchezza della Fede Cattolica nella sua concreta tradizione:
“Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura – se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a Lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? (…)No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libero. (…) Non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita”.
E’ diventato di moda parlare dell’uomo moderno che ha un “sé respingente”, indifferente al soprannaturale, in guardia contro il divino, non più simpaticamente vibrante con le armonie di un mondo teofanico.
Ma c’è una sottile illusione in questo linguaggio.
Non si nasce con un “sé respingente”, o destinati ad averlo: uno vuole essere/avere un “sé respingente”.
Alle fine della giornata, questo leggendario “sé respingente” non potrebbe essere semplicemente una descrizione psicologica della condizione di caduta dell’uomo, fuori dalla quale è destinato a essere attratto dalla pratica religiosa e dall’operare della Grazia di Dio?
Tutta la forza della spiritualità Cattolica è finalizzata a rompere questa opposizione fra l’Ego e Dio, un’opposizione nella quale siamo nati e contro la quale dobbiamo combattere ogni giorno della nostra vita.
Scopri di più da Annalisa Colzi
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