Il Magistero non cambia
«La verità ha in sé una forza unificante; libera gli uomini dall’isolamento e dalle opposizioni nelle quali sono rinchiusi dall’ignoranza della verità. E aprendo loro la via verso Dio, li unisce gli uni agli altri».
(Istruzione Donum veritatis. Sulla vocazione ecclesiale del teologo. Congregazione per la dottrina della Fede).
Ora, però, mons. Livi, nell’articolo apparso il 10 ottobre scorso su Lanuovabussolaquotidiana, dal titolo Divorziati, le ambigue soluzioni dei “pietisti”, afferma che «molti all’interno della Chiesa si servono della retorica per attuare i loro fini politici. E così facendo uniscono le loro forze alle forze politiche; che dall’esterno combattono la vera Chiesa di Cristo».
E’ proprio il disprezzo o l’indifferenza verso la verità che provoca il rumore mediatico suscitato oggi contro la Chiesa, la Fede, tale da ingenerare una confusione profonda nelle menti di tanti e da intaccare alla radice la fede dei semplici. E mons. Livi denuncia il fatto che ciò avviene con strumenti manipolatori di carattere retorico che portano il lettore o l’ascoltatore sprovveduto ad aderire a battaglie umanitarie finalizzate ad ottenere obbiettivi astratti come la giustizia, la solidarietà o la misericordia, a seconda dei casi, i quali vengono riempiti con i contenuti più svariati, come nel caso ora della comunione ai divorziati risposati.
Il fenomeno così ben analizzato da mons. Livi trae alimento nel terreno fertile della propaganda laicista. Che si permette di interferire in un campo che non è il suo. Ma anche in quello costituito dal lavoro di tanti che, nel mondo cattolico, esperti o inesperti, teologi o semplici opinionisti, si sentono in dovere di esporre le loro idee sul Magistero espresso dal Papa, dai Vescovi o nei Concili. Spesso nel sincero desiderio di dare sollievo al disorientamento diffuso tra tanti buoni fedeli; fedeli scandalizzati per i mali che opprimono in modo sconcertante il panorama ecclesiale oggi. E le critiche si susseguono di giorno in giorno, su giornali, siti…
Una cosa, però, è mettere in guardia i lettori sulle deviazioni dottrinali comprovate, esplicite, palesi di laici che ricoprono ruoli significativi all’interno della Chiesa, oppure di ecclesiastici, mediante una critica pacata, efficace ed argomentata; altra invece è alzare la voce ad ogni vento che turba. Prendiamo pure atto che la congerie di esternazioni di rappresentanti ecclesiastici dà facile adito a manipolazioni o fraintendimenti. Tuttavia, al fine di non accrescere il disorientamento dei fedeli, occorre richiamare alla necessità di esprimere le proprie opinioni solo quando si è veramente preparati; sicuri di avere argomentazioni probanti a sostegno delle proprie idee. E di poter entrare legittimamente nell’argomento scelto, in modo opportuno.
L’Enciclica Humani generis, a proposito, è molto chiara circa ciò che può essere oggetto di discussione e ciò che non lo è:
«E’ vero che generalmente i Pontefici lasciano liberi i teologi in quelle questioni che, in vario senso, sono soggette a discussioni fra i dotti di miglior fama; però la storia insegna che parecchie questioni, che prima erano oggetto di libera disputa, in seguito non potevano più essere discusse.
Né si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso. Col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo…
Se poi i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale questione, secondo l’intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più costituire oggetto di libera discussione fra i teologi» (Enciclica Humani generis). Il testo prosegue incoraggiando i teologi a ritornare alle fonti della Rivelazione divina; la sacra Scrittura e la Tradizione.
«Dio insieme a queste sacre fonti ha dato alla sua Chiesa il vivo Magistero; anche per illustrare e svolgere quelle verità che sono contenute nel deposito della fede soltanto oscuramente e come implicitamente. E il divin Redentore non ha mai dato questo deposito, per l’autentica interpretazione, né ai singoli fedeli, né agli stessi teologi, ma solo al Magistero della Chiesa».
Ed è questo stesso, quindi, che indica la strada che i teologi devono seguire per interpretare correttamente il contenuto della Fede:
«Nel corso dei secoli la teologia si è progressivamente costituita in vero e proprio sapere scientifico. È quindi necessario che il teologo sia attento alle esigenze epistemologiche della sua disciplina, alle esigenze di rigore critico… Ma l’esigenza critica non va identificata con lo spirito critico; che nasce piuttosto da motivazioni di carattere affettivo o da pregiudizio. Il teologo deve discernere in se stesso l’origine; e le motivazioni del suo atteggiamento critico e lasciare che il suo sguardo sia purificato dalla fede. L’impegno teologico esige uno sforzo spirituale di rettitudine e di santificazione» (Donum veritatis, n. 9).
Ora, i giornalisti che si occupano di tematiche ecclesiastiche, entrando nel merito delle questioni dottrinali, rispettano tali presupposti imprescindibili?
Nel momento in cui un laico manifesta la propria opinione circa i contenuti di Fede e li interpreta alla luce della ragione, esprime un impegno di carattere teologico. Pertanto, se vuole essere onesto, deve innanzitutto partire dalla Fede, come esige l’autentico spirito teologico; e in secondo luogo rispettare le regole epistemologiche, scientifiche proprie di questa disciplina. Se esce da tale orizzonte finisce per parlare a sproposito. Con l’esito di soffiare sul fuoco della confusione imperante; e fare il gioco di chi lavora per svilire la Chiesa.
Il parlare delle verità custodite dalla Chiesa, poi, esige il rispetto del principio enunciato al n. 13 di detto documento: «Egli (Dio) ha dato alla sua Chiesa, mediante il dono dello Spirito Santo, una partecipazione alla propria infallibilità». E’ noto che le verità affermate in modo definitivo da chi ha autorità per farlo nella Chiesa richiedono l’assenso totale da parte del fedele. Come del grande teologo, che non ha diritto di metterle in discussione. Quanto poi alle verità non proposte in modo definitivo: «è richiesto un religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza. Questo non può essere puramente esteriore e disciplinare. Ma deve collocarsi nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede» (n. 23). Spesso, poi, quando il Magistero interviene su questioni dibattute, è difficile discernere quali enunciati fanno riferimento a principi fermi; e quali sono limitati alla situazione contingente.
Il documento, dopo, precisa che «la volontà di ossequio leale a questo insegnamento del Magistero in materia per sé non irreformabile deve essere la regola» (n. 24). Ciò non toglie che il teologo possa porsi degli interrogativi sull’opportunità; la forma o il contenuto di interventi magisteriali di tal genere. In questo caso egli è chiamato innanzitutto a verificare il livello di autorevolezza di tali interventi secondo criteri stabiliti; l’insistenza nel riproporre quella dottrina e il modo di esprimersi.
A ciò occorre aggiungere che l’ossequio qui richiesto è un atto del cuore. Che esige, affinché sia vero e credibile, che si manifesti in un comportamento coerente. Anche nel caso in cui il teologo dissentisse dalla dottrina esposta in un intervento magisteriale di questo tipo. In tal caso egli deve avere sempre un atteggiamento di disponibilità ad accettare lealmente l’insegnamento magisteriale, non considerando la sua coscienza soggettiva come «istanza autonoma ed esclusiva per giudicare della verità di una dottrina» (Ivi, n. 28). Infine «se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in se stesso…
Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora contribuire ad un reale progresso; stimolando il Magistero a proporre l’insegnamento della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato» (Ivi, n. 30). Quali le modalità di intervento? «In questi casi il teologo eviterà di ricorrere ai «mass-media» invece di rivolgersi all’autorità responsabile. Perché non è esercitando in tal modo una pressione sull’opinione pubblica che si può contribuire alla chiarificazione dei problemi dottrinali e servire la verità» (Ibidem). Il dissenso, dunque, non deve essere palesato in modo pubblico; come recita il canone 752 del CIC, in modo da non essere percepito «dal popolo di Dio, con conseguente disaffezione dal magistero».
Mi pare che i documenti parlino chiari. Si mostra l’apertura della Chiesa nei confronti dell’elaborazione razionale, basata su un lavoro scientifico serio, attorno alla dottrina magisteriale, a patto che si tenga come presupposto il fatto che se il semplice credente può avere opinioni erronee, la Fede teologale non può ingannarsi. La libertà dunque va ricercata sempre e solo nella verità e lì sarà trovata in pienezza.
Chi ha ancora tale attenzione? Non vediamo con i nostri occhi quali gravi danni hanno causato tanta superficialità e mancanza di informazione circa queste regole ispirate da vera libertà e carità nei confronti della salute delle anime?
Resta, dunque, l’urgenza di fare riferimento ai testi magisteriali; senza preconcetti, con coscienza retta. Senza la pretesa di isolarne uno a detrimento di altri.
di Francesca Pannuti
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