Appello ai catechisti
Catechisti, le guide celesti
per chi si affaccia alla vita
Una bella riflessione di Don Massimo non solo per i catechisti, ma per tutti.
Nella mia fine è il mio principio
(detto attribuito a Maria Stuarda, regina di Scozia)
Il seme che cade dalla spiga matura, arricchito misteriosamente dalla vita che lo ha preceduto e che gli ha trasmesso, nella maturità del suo sviluppo, la sua propria pienezza, a sua volta diviene spiga matura; e lascia cadere altri semi, pronti, a loro volta, a germogliare.
Come un seme caduto dalla spiga, l’infante riceve dal padre e dalla madre la linfa di una vita; che aspira a ripercorrerne tutto lo sviluppo.
Ma tra il seme e l’infante vi è un salto di qualità. Egli nasce molto più imperfetto del seme, con un’imperfezione, però, che contiene la promessa di una perfezione infinita. Mentre, infatti, il seme si accontenta della perfezione della spiga da cui deriva, l’infante aspetta dal padre e dalla madre molto più di quanto essi gli hanno dato con il dono della vita fisica; e molto più di quanto potranno dargli con la vita spirituale. La pienezza di coscienza e di amore che, attraverso l’opera di anni, essi gli danno, può soltanto apparentemente appagarlo.
«L’uomo lascerà il padre e la madre».
Perché? Non stava bene con loro? Certamente! Ma aspirava a qualche cosa di più.
A che cosa? A una maggiore pienezza di coscienza e di amore. Se l’uomo trova il senso della sua vita, e della vita di tutto il mondo non cosciente, nella donna, che finalmente «è carne della sua carne e osso delle sue ossa», se, infatti, il senso della sua vita può essere soltanto in un “tu”, che a sua volta trova in un “tu” il senso della propria vita, questo reciproco “tu” non può non aprirsi all’aspirazione ad una pienezza infinita di coscienza e di amore, una pienezza che, necessariamente, sarà trascendente, ma che, nello stesso tempo, dovrà dare pieno appagamento immanente all’aspirazione di tutto il creato, e all’uomo e alla donna, che ne sigillano il senso.
Così, il giovane che lascia il padre e la madre, cerca, nel nuovo amore che l’unisce alla sua sposa, qualche cosa di più di ciò che ha avuto, e questa aspirazione si concretizza nella nascita di una nuova generazione.
Ogni nuova generazione umana è più ricca della precedente, e, nello stesso tempo, aspira a dar vita a un’ulteriore generazione, che si arricchirà ancora maggiormente. Quale sarà il termine ultimo a cui questa crescita e moltiplicazione delle generazioni aspira, se non la generazione dello stesso Figlio eterno di Dio nella carne?
«Questo mistero è grande»! L’amore tra l’uomo e la donna, come è al centro della vita del mondo, così è al centro della vita cristiana. Infatti, come da esso la vita del genere umano cresce, si moltiplica e si sviluppa, così fin dall’eternità era stabilito che da esso dovesse nascere l’uomo di cui, senza restrizione alcuna, fu detto: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza».
Tutte le generazioni avevano preparato questa nascita, con un ininterrotto arricchimento di coscienza e di amore. Che però non poteva mai trovare, nella sola dimensione umana, il proprio appagamento – e ciò non soltanto a causa del peccato, del male e della morte, ma per l’incommensurabilità del finito con l’infinito. D’altra parte, è dall’amore umano che il Figlio di Dio doveva nascere nel mondo. Dall’amore umano, non dall’amore carnale; perché il vero segreto dell’amore umano non è nella carne, ma nello spirito, e perciò nello Spirito Santo.
Questi animava la Vergine Madre e, per mezzo di lei, irraggiava su ogni amore sponsale, paterno, materno e filiale un riflesso della sponsalità, paternità, maternità e filialità divina. Un irraggiamento di aspirazione nelle generazioni prima di Cristo. E un irraggiamento di partecipazione nelle generazioni dopo Cristo. Le quali, dalla carne santificata, perché rigenerata dal battesimo e nutrita dalla carne e dal sangue del Figlio di Dio, ovunque riecheggiano le parole divine; «Padre nostro, che sei nei cieli».
Parole celesti: «Sia fatta la tua volontà come in cielo… »; ma parole, nello stesso tempo, terrestri: «così in terra»!
Non c’è più separazione tra il cielo e la terra. La vita umana, in quanto umana, è ormai una vita celeste. E ciò che da sempre conferisce senso a tutto il creato, cioè l’amore fecondo – di una fecondità spirituale, più ancora che carnale, e quindi eminentemente rappresentata dalla fecondità dell’amore verginale consacrato – dell’uomo e della donna, aspira a dar vita a un nuovo genere umano, in cui risplenda perfettamente il sacerdozio di Cristo. Cioè il potere di conferire il sacro sigillo a tutto il creato. L’uomo non più tiranno, a causa del peccato, bensì colui che effonde i benefici divini nella vita del mondo e nella vita degli uomini; e che in tal modo, con la sua opera santa, eleva al Padre una lode degna di lui.
«Aspira a dar la vita a un nuovo genere umano», abbiamo detto. Infatti, la vita celeste, donata da Cristo, non si realizza perfettamente in una sola generazione – e neanche in tutte le generazioni, se non alla consumazione dei secoli, nella parusia finale di Cristo, Re e Signore di tutto il creato.
Così ogni generazione, come è avvenuto dall’origine del mondo, è insoddisfatta della ricchezza di coscienza e di amore, umano e divino, che ha ricevuto da chi la ha generata, nella carne e nello spirito. E aspira ad una ricchezza più grande di partecipazione ai misteri insondabili del mondo, dell’uomo, di Cristo e di Dio.
Chi potrebbe negare che, rispetto a quanto abbiamo ricevuto dai nostri genitori, il nostro modo di sentire il ruolo di Cristo nella vita dell’umanità sia immensamente più ricco, illimitato, ecumenico? E ciò non perché quanto ci hanno trasmesso non fosse santo e divino; e degno di essere preservato nella sua integrità. Ma perché essi non potevano rendere conto pienamente del tesoro che ci trasmettevano; e che immensamente li superava, e che immensamente ci supera.
Le generazioni che ci seguiranno, non dovranno sviluppare, dallo stesso granello di senape, nuove e più rigogliose fronde?
Un’Eneide spirituale, intitolò un convertito del secolo passato, Ronald Knox, il racconto della sua conversione alla Chiesa di Dio.
«Dovunque ti porti la tua Odissea» egli scrive, «essa deve contenere il finale del ritorno a casa. Io ho osato prendere il mio titolo da un poema ancora più ricco di suggestioni. Perché l’Eneide non contiene la sola idea del ritorno a casa; ma del ritorno a casa in un posto in cui non sei mai stato prima. Un posto che contiene in sé tutto ciò che aveva valore nella tua vecchia casa; con in più le promesse di un futuro che è nuovo. Nell’Eneide, come nell’Odissea, puoi essere allontanato dalla tua rotta; ma, per esaltare il senso dell’avventura, nell’Eneide tu non sai neanche dove sia il tuo porto; ti si dice:
Austinium, quicumque est, quaerere Thybrim;
«devi tentare, riferirti di nuovo agli inizi, affidarti ad una guida celeste. Né, come in un’Odissea, è il pensiero di scene e di visi familiari a spingerti avanti quando sei tentato di indugiare. Ma è il solo senso di una missione, che insiste imperiosamente e infiamma il tuo scoraggiamento:
Cunctus ob Italiam terrarum clauditur orbis.
«E se nel corso di questo libro io cito troppo liberamente, come ho fatto ora, dal poema che è il suo titolo, ciò è perché l’Eneide ha viaggiato insieme a me negli ultimi due mesi prima della fine del mio viaggio; e io l’ho letta, come usavano fare i cristiani, con qualcosa di simile alla ricerca di un conforto spirituale».
E a conclusione della sua narrazione, egli non scrive un “Epilogo”, bensì un “Prologo”:
«perché non è mai troppo tardi per avere un prologo mentre si è al servizio di Colui che dice: Ecce nova facio omnia».
Questo ci conforta immensamente. Infatti, a rileggere questo testo scritto quasi cent’anni fa – nel 1918 – viene a prima vista una grande angustia. Dov’è più quella Chiesa Cattolica di cui egli parla? E quel Belgio cattolico che egli descrive con tanto amore, dove si trova più nel Belgio ultra-secolarrizzato di oggi?
Ma la sua testimonianza è come un fiotto di luce divina. La vita della Chiesa non è un ritorno a casa, un ritrovare il Belgio cattolico che avevamo lasciato alle spalle. Ma è un andare verso una casa antica, sì, ma sempre nuova; misteriosamente nuova, affidati ad un a guida celeste.
E questa guida celeste, per le generazioni che si affacciano alla vita, siete soprattutto voi, catechisti! Voi non siete i trasmettitori, più o meno attrezzati, di formule, nella loro origine venerabili. Ma per troppo tempo imparate soltanto con la mente; e non capite perché non vissute, e non vissute; perché si è dimenticato che esse parlavano alla volontà e al cuore, oltre che alla mente.
Allora altre parole, lontane dalla sapienza celeste e vicine ai sensi terrestri, minacciano di sedurre la volontà e il cuore dei piccoli e dei giovani; e di sedurre anche voi, catechisti, nell’adempimento del vostro compito.
Ricordatevi che voi siete guide celesti, non guide di fango. E che spetta a voi illuminare, con nuovi fulgori dello Spirito di Cristo, che abita in voi, le nuove strade. Che, spesso proprio attraverso i più grandi smarrimenti, si aprono al genere umano rigenerato; che, pur senza saperlo, aspira, tuttavia, a rendere sempre più piena la sua rigenerazione.
E le giovani piante che a voi vengono affidate, proprio nell’età più delicata e decisiva del loro sviluppo, non si trovano come smarrite tra mille seduzioni, che vorrebbero annebbiare, e infine spegnere la santa sovranità del loro spirito sulle forze e sulle circostanze che presiedono al loro destino? Sta a voi rinvigorire, o anche risvegliare quella santa sovranità. Facendo gustare alle nuove generazioni da voi guidate la gioia profonda di vincere, con lo spirito di Cristo, che ogni ostacolo ha abbattuto con la sua croce, gli allettamenti di una facile resa.
Se voi non otterrete questo, se non saprete avviarli, con divino entusiasmo, all’esercizio quotidiano della vittoria sopra il loro io inferiore, tutto il sapere che potrete imprimere nella loro memoria sarà vano. E tutti i compromessi che farete con le mode del momento saranno dannosi: essi si smarriranno sempre di più.
Ma in fondo al cuore rimpiangeranno che chi, al momento opportuno, avrebbe dovuto, non ha saputo indicare loro, nel labirinto della vita moderna, la Via, la Verità e la Vita. Che tutto sovranamente governa e indirizza al bene supremo del genere umano.
don Massimo Lapponi
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